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La “doppia chiamata”, di Dio e di un popolo amato, dei 19 martiri d’Algeria

La “doppia chiamata”, di Dio e di un popolo amato, dei 19 martiri d’Algeria

Messa per Pierre Claverie, ucciso nel 1996 (foto ANSA)

il percorso

Al Meeting di Rimini una mostra-testimonianza dal “decennio nero” tra il 1992 e il 2022, della guerra civile e del terrore scatenati dal fondamentalismo islamico

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I sette monaci trappisti di Tibhirine uccisi nel 1996 dai terroristi islamici del Gia, il Gruppo islamico armato algerino, sono entrati nella memoria civile e religiosa dell’occidente grazie allo splendido film Uomini di Dio di Xavier Beauvois, premiato a Cannes nel 2010. Ma nel “decennio nero”, tra il 1992 e il 2022, della guerra civile e del terrore scatenati dal fondamentalismo islamico in Algeria – che causò oltre 150 mila vittime – furono in tutto diciannove i martiri cristiani. Insieme, sono stati proclamati beati a Orano nel 2018. E le parole del “Testamento spirituale” del priore di Tibhirine, padre Christian de Chergé, riassumono e illuminano le storie di ognuno di loro, pur così diverse: “Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese”. Una doppia vocazione, da cui nasce il titolo di una mostra al Meeting di Rimini, che inaugura domani: “Chiamati due volte. I martiri d’Algeria”. Chiamati due volte perché hanno questi uomini e donne hanno risposto a una doppia vocazione: quella religiosa e la fedeltà al popolo algerino con il quale e in mezzo al quale vivevano.

Tutti, dalla prima martire, una suora delle Piccole sorelle dell’Assunzione, Paul-Hélène Saint-Raymond, assassinata nella Biblioteca aperta per i ragazzi nella Casba di Algeri, all’ultimo, il vescovo Pierre Claverie ucciso in un attentato insieme a un suo giovane amico musulmano, Mohammed Bouchikhi: c’è anche la sua immagine nell’icona che ricorda i 19 martiri. La mostra è stata realizzata – con ampi contributi scientifici – dalla Fondazione internazionale Oasis, nata nel 2004 per iniziativa del cardinale Angelo Scola, allora patriarca di Venezia, porta d’oriente, per favorire la conoscenza e il dialogo tra cristiani e musulmani. E non è necessario spiegare perché il racconto della loro vicenda e della loro testimonianza, nel mezzo di una guerra civile violentissima in cui non venne risparmiato nessuno e non venne rispettata nessuna differenza tra etnie né religioni (molti furono gli imam trucidati) sia oggi particolarmente significativa. Il sacrificio dei diciannove martiri d’Algeria è una piccola (nel mare di morte di quel decennio, antesignano di altri mari di morte) ma limpida testimonianza che il cristianesimo può e desidera essere elemento di pace e bene per tutto il popolo, anche in paesi in cui è numericamente minoritario.

Il commovente percorso della Mostra propone, oltre a immagini e alcuni reperti, molte testimonianze e interviste in video, fra le altre al cardinale Jean-Paul Vesco, arcivescovo di Algeri, al regista Xavier Beauvois, al padre domenicano Adrien Candiard, autore della pièce teatrale Pierre e Mohamed e al postulatore della causa di beatificazione dei diciannove martiri, il trappista Thomas Georgeon. Nel bel catalogo della mostra, curato dalla Libreria Editrice Vaticana, padre Georgeon propone “l’argomento di fare corpo”, inteso come “l’amore per il paese, per il popolo algerino. Il popolo poteva solo rimanere e subire il terrorismo. Nel loro desiderio di condividere la situazione con questo popolo così lacerato dalla violenza… hanno fatto la scelta di restare. Pochi sono stati uccisi, cioè i 19, ma tanti sono rimasti e sono ancora oggi in vita. Questa scelta era una scelta di fedeltà. Credo che per me sia una parola talmente importante nel mondo di oggi, cioè è un valore che di cui non si parla più. Fedeltà. Significa: ho un impegno, ho fatto una scelta devo restare fedele”. La “doppia chiamata” che è alla radice di quella “amicizia tra i popoli” che è il titolo, mai formale, del Meeting di Rimini.

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