Quando il calcio era veramente una cosa seria


Negri l calcio? Mai giocato in vita mia: io giocavo a pallone". Il vecchio amico si rannuvola, a ragione: tra l’uno...
Negri
l calcio? Mai giocato in vita mia: io giocavo a pallone". Il vecchio amico si rannuvola, a ragione: tra l’uno e l’altro c’erano differenze importanti, a cominciare dal numero di giocatori per squadra, già in sette era un lusso. E l’abbigliamento? Non c’erano maglie uguali e ciascuno faceva per sé. Quanto alle regole, niente fuorigioco: troppo complicato. Poi non c’era quasi mai un arbitro, ci si autodisciplinava litigando, ma neanche tanto. Infine, il terreno: zero erba, si giocava su terra compatta, dura come cemento d’estate; di palta e neve nei veri, lunghi inverni di prima del diluvio. L’amico, negli anni della scuola media, aveva aggregato giovani raminghi in una squadra di amore e di rabbia, una piccola corte dei miracoli. Il portiere, sino all’arrivo di uno davvero bravo, lo facevano tutti a turno e con esiti sconfortanti. I terzini sapevano che il loro mestiere era di calciare la palla il più lontano possibile dall’area amica: una volta, con un poderoso, casuale pallonetto, uno dei due fece addirittura gol entrando così nelle leggende rionali. In mediana c’era un mingherlino di bassissima statura: somigliava a madre Teresa di Calcutta, nel fisico. E forse anche un po’ di faccia. Però tocava il pallone di fino. In squadra c’erano anche due promettenti ladruncoli, all’epoca si contentavano di qualche pollo sulla via del Beccaria: erano bravi a rubare palla. Poi c’era un ragazzo che come me e come tutti amava i Beatles e i Rolling Stones: aveva un raro senso della posizione. Peccato che il piccolo male di cui soffriva lo mandasse in temporanea confusione, specie quando era lanciato a rete. Questo era il mondo a spanne del nostro pallone. Ma tutto cambiò in fretta, la primavera arrivò mannara con la lanugine dei pioppi. Il nostro amico, un 25 aprile radioso, esordì su un campo vero. Ma al minuto tot, sentì la rotula uscirgli dai gangheri. L’allenatore pronunciava la sua franca sentenza: “Bagaj, ti a balòn te gioeughet pù”. La lana dei pioppi turbinava come neve.
Il Giorno