Napoli, Meret o Milinkovic? Conte ristabilisce le gerarchie

C’è talmente un viavai sull’uscio di casa che ormai non stupisce neanche più: eppure c’è stato un tempo anche abbastanza lungo in cui l’ultimo a chiudere la porta è rimasto eguale a se stesso, freddo e pure moderno, (terribilmente) vincente e (olimpicamente) calmo. Ma in quest’epoca in cui non esistono più neanche le mezze stagioni, forse è il caso - ogni tanto - di rimuovere le certezze e scuotere dal rischio d’appagamento. La dura vita dei portieri è cominciata da un bel po’, ormai si è ben oltre i trent’anni, e poi da quando è stata pure inserita la costruzione dal basso, si è proceduto in alcuni casi con la distruzione del posto fisso, roba che neanche Checco Zalone: Alex Meret ne ha vissute di cotte e di crude, s’è fatto male (e seriamente) al suo secondo allenamento con il Napoli (nel 2018), ha debuttato dopo quattro mesi e s’è dovuto adeguare al ballottaggio con Ospina, è uscito per un po’ di scena ma in una notte di Covid, nell’Olimpico deserto, ha allungato le sue manoni sulla Coppa Italia e poi, proprio mentre stava per andare allo Spezia - una specie di “Quo Vado” del calcio, per un enfant prodige - ha cominciato la collezione di scudetti, uno con Spalletti e un altro con Conte.
Che la giostra avesse ricominciato a girare secondo usi e costumi, Meret l’ha intuito a giugno, con l’acquisto di Milinkovic Savic: non si accomoda in panchina un assegno da 22 milioni, se non per girarlo poi quando è il caso in campo. A Firenze, dieci giorni fa, proprio mentre si scaldava in uno di quei pomeriggi in cui sembra non ci siano controindicazioni, il flessore ha cigolato, la spugna è volata dall’angolo e la stagione s’è imbattuta in quella sliding door che ogni tanto va in scena: dentro Milinkovic Savic, che di nome fa Vanja ma che ha piedi (quasi) come Sergej, e copione assecondato. A Manchester, per prudenza o forse per altro, Antonio Conte ha ripreso il mazzo di chiavi e lo ha riconsegnato al serbo, e stasera contro il Pisa si ricambia, con gerarchie che paiono (ri)aggiornate o magari è semplice turnover, per capire ancora meglio e per premiare talenti che devono comunque “sfidarsi” per alimentarsi a vicenda. È il calcio 3.0, non si scappa.
Le correnti di pensiero, almeno quelle, non mutano, né potrebbero: tra i cultori de "il portiere deve parare" e i "ribelli conservatori" che si appoggiano al "palleggio sistematico" non si scorgono vie di mezzo in quest’epoca che talvolta sembrano attrezzare gimkane nell’area piccola: Meret non fa una plissé, con quella faccia da bravo ragazzo s’è tuffato tra Ospina (e poi Gollini) e i duelli senza mai scomporsi; la sua vita è un perenne confronto, perché pure in Nazionale ha dovuto allargare le spalle per difendere persino il ruolo di vice Donnarumma. E adesso che arriva il Pisa si ripartirà con il brusio di massa al primo retropassaggio o con l’applausone per l’ennesima prodezza. In fin dei conti, che noia sarebbe senza tutta questa girandola d’emozioni: Meret ci è cresciuto e se ne è giovato, mettendo una sull’altra 214 presenze con la maglia del Napoli, un kamikaze con sprezzo del dualismo che guarda ora Bugatti (261), Castellini (259) e Sentimenti II (235), gli unici colleghi che gli sono rimasti davanti. Proprio un uomo ed un portiere d’altri tempi.
La Gazzetta dello Sport