Dal Perù alla Scala. Luis Alva è stato il tenore della Rossini renaissance


Ansa
1927-2025
L'artista, raffinato e versatile, ha attraversato quasi un secolo di opere con grazia e intelligenza musicale, imponendosi come interprete ideale del belcanto. Fondamentale nel rinnovamento rossiniano, ha lasciato un’eredità preziosa
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Uno dei misteri più bizzarri del mondo dell’opera è l’attrazione fatale fra i tenori peruviani e Rossini. Oggi, Juan Diego Flórez, certo; ieri, il suo maestro Ernesto Palacio (sono anche, rispettivamente, direttore artistico e sovrintendente del Rossini Opera Festival di Pesaro, Rof per noi talebani rossiniani). Ma l’altro ieri ci fu il primo peruviano e l’ur-rossiniano dei tempi nuovi, Luis Alva, che è morto oggi dopo 98 anni di una vita ben spesa al servizio del canto, dell’opera e soprattutto del Gioacigno.
Era nato a Lima nel ’27, primi studi in patria, debutto nella zarzuela nel ’49. Nel ’53, era a Milano a studiare, e qui diventò un “cadetto” della Scala in quella irripetibile stagione dove, alla Piccola Scala sì bella e perduta, era tutto un turn over di Bruscantini, Panerai, Sciutti, Cossotto, Ratti, Montarsolo e altri ragazzi che avrebbero fatto molta strada su tutti i palcoscenici del mondo. E, appunto, Alva, che nel 1956 debuttò alla Scala “vera”, Almaviva nel Barbiere di Siviglia accanto a una Rosina che si chiamava Maria Callas, e alla Scala restò per 28 stagioni e 335 presenze complessive fra opere e concerti, in 33 parti diverse: se non è un record, poco ci manca.
Il repertorio era quello che conveniva alla sua voce aggraziata ma piccola; la dimostrazione della sua intelligenza, non aver mai allargato il primo forzando la seconda. E dunque i napoletani, che allora si facevano senza tanti proclami e invocazioni alla cultura, ma semplicemente perché lo meritano, Paisiello e Cimarosa in primis (il suo Paolino del Matrimonio segreto era un incanto), molto Mozart, pochi Bellini e Donizetti, in Verdi solo Alfredo e Fenton, e un tenore/Bacco dell’Ariadne di Strauss che mi chiedo come abbia fatto a cantare. Ma, soprattutto, Rossini. E qui si conferma la vecchia regola che avere talento non basta: bisogna averlo al momento giusto. E il momento erano gli anni Settanta, quando Rossini tornava a essere Rossini, con le edizioni critiche, la ripulitura stilistica, e i leggendari spettacoli di Claudio Abbado e Jean-Pierre Ponnelle che cambiarono per sempre la nostra percezione di Rossini, dell’opera, del divertimento e forse anche della vita. Alva c’era sempre: Almaviva nel Barbiere, Ramiro nella Cenerentola, Lindoro nell’Italiana in Algeri. Poi, certo, arrivò l’ondata neobelcantistica dei favolosi Eighties, americana ma non solo, e s’impose un altro modo di cantare Rossini, paradossalmente più nuovo perché più antico. Su Alva pesarono le scomuniche di Rodolfo Celletti: sulle agilità “di forza” il vociologo sommo aveva ragione; sul giudizio complessivo no, perché il canto è un fenomeno storico, e Alva non poteva che cantare come si faceva nel suo tempo.
In ogni caso, senza il suo Rossini non ci sarebbe stato quello che amiamo oggi. Restano i dischi e i video della premiata coppia Abbado & Ponnelle, dove il tenero Luigi non sfigura certo accanto a Teresa Berganza o Lucia Valentini Terrani. Vederlo sillabare “Zitto, zitto, piano, piano” nella Cenerentola, mentre chiede al valletto lumi sulle sorellastre, è una delizia consegnata all’eternità del dvd. La commedia degli equivoci non la recita: la danza. Me lo ricordo, lui ormai anziano, io giovin principiante, in un meraviglioso Orphée aux Enfers, ma in italiano, parmi, a Carnevale in una Fenice piena di gente in maschera che ballava in sala: la voce era andata; la classe, l’eleganza, la recitazione no. Ad Alva dobbiamo molto. Anche alcuni di quei pochi preziosi momenti, che poi sono quasi tutti teatrali, che si chiamano felicità.
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