Samuel Oppenheimer, l’ebreo di corte


Samuel Oppenheimer (1630-1703) (foto Getty)
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È stato l’uomo dietro alla potenza militare degli Asburgo nel Seicento. Un fragile equilibrio fra prestigio e persecuzione
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In Sfere di giustizia (1983), Michael Walzer osserva che il temperamento dell’ebreo della diaspora mal si concilia con una lettura “piagnucolosa” della storia del popolo dell’Alleanza. Perché essa è anche una storia di coraggiosa innovazione, di creatività intellettuale, di intraprendenza mercantile, di sopravvivenza individuale e collettiva contro ogni avversità. Dal canto suo, quasi due secoli e mezzo prima Montesquieu, nello Spirito delle leggi (1748), aveva spiegato il contributo decisivo degli ebrei nella trasformazione del commercio da attività disprezzata, associata all’usura e al prestito su pegno, a professione degna e stimata. In questo senso, la biografia di Samuel Oppenheimer (1630-1703) avrebbero potuto scriverla sia il filosofo della politica americano sia il grande giurista francese.
Niente letture “piagnucolose” della diaspora, che è anche storia di innovazione, creatività intellettuale, intraprendenza mercantile
C’è un episodio della parte finale della sua esistenza che ne riassume idealmente tutto il significato. Vienna, ottobre 1700: la sua fastosa residenza che dava sul Bauernmarkt, il mercato agricolo della capitale austriaca, viene rasa al suolo. Una folla di artigiani inferociti, guidata da un produttore di spade e da uno spazzacamino, aveva deciso di sbarazzarsi del deicida che li stava mettendo con le spalle al muro. Del resto, erano già apparse le prime copie del trattato di Johann Eisenmenger “Entdecktes Judenthum” (“Il giudaismo mascherato”). Una durissima requisitoria contro gli ebrei infanticidi, figli del demonio, infezioni ambulanti, parassiti bipedi, con cui non c’era modo di convivere.
Nato a Heidelberg, lo “Hofjuden”, l’ebreo di corte, era accusato di aver assunto il controllo dell’impero. Girava su una carrozza a quattro cavalli col suo stemma dipinto sugli sportelli, mentre gli onesti cristiani morivano di fame. E, cosa ancora peggiore, si vociferava che fosse in combutta con i turchi. Così la sua dimora, che si levava al di sopra delle bancarelle dei verdurai, fu saccheggiata, ripulita dei suoi offensivi piatti d’oro e candelieri d’argento. Tappeti e arazzi, “troppo voluminosi anche per i carri in attesa, furono squarciati e ridotti a brandelli, calpestati con gli stivali infangati; le porcellane atterrarono in frantumi tra le rape. I vini scorsero giù per le strozze dei rivoltosi […]” (Simon Schama, La storia degli ebrei, vol. I, Mondadori, 2019).
Oppenheimer riuscì a fuggire attraverso una galleria espressamente costruita per simili evenienze. Quando la ribellione fu sedata, il cliente e protettore del suo “Oberkriegsfaktor ” (fornitore militare), l’imperatore del Sacro romano impero Leopoldo I, fece impiccare i suoi capi. Non che gli importasse molto degli ebrei, ma i disordini avevano la cattiva abitudine di diffondersi. Appena l’anno prima c’era stata una grave sommossa di contadini contro gli ebrei della Franconia rurale. Ma Oppenheimer non era uno sciocco. Sapeva che chi adesso fingeva di fare giustizia aveva partecipato al complotto per eliminarlo. Gli doveva una cifra enorme, duecentomila fiorini, per l’acquisto di segale, grano e farina, moschetti e carabine, granate e proiettili, pastrani e calzature. Se l’imperatore voleva fare la guerra a Luigi XIV, qualcuno doveva procurargli l’equipaggiamento necessario, e lui l’aveva fornito. Perciò si era appellato alla Hofkammer, la suprema autorità fiscale della monarchia asburgica, per ottenere i rimborsi pattuiti per contratto. Il “Finanzminister” allargò le braccia, gli mostrò le mani vuote e si scusò, ma c’erano ancora soldati sul campo di battaglia e lui non aveva nemmeno un “groschen” (soldo) da restituirgli.
Non era una novità. Dieci anni prima gli dovevano la bellezza di cinque milioni di fiorini e se l’erano tolto di torno. Allora Oppenheimer scrisse direttamente al sovrano, il quale gli rispose che era lui in debito con il regno, e non viceversa. Del resto, i nemici di Samuel erano ovunque. Il cardinale Kollonitsch, che odiava gli ebrei, non gli aveva perdonato il crollo del proprio consorzio di banchieri cattolici. La devastazione della sua casa serviva a ricordare al presuntuoso giudeo che, se non avesse rinunciato alle sue arroganti pretese, la vita gli avrebbe riservato sorprese assai amare. Più amare persino delle prigioni austriache che aveva conosciuto con il figlio Emanuel nel 1697, quando erano stati arrestati con la falsa accusa di aver tramato per uccidere un rivale in affari.
La rovina di Samuel O, come veniva chiamato nelle cancellerie di mezza Europa, è una vecchia storia ebraica, caratterizzata da una resistenza indomabile alle sventure. Gli ebrei di corte dell’epoca barocca erano soltanto l’ultima versione di una vicenda iniziata nei secoli medievali. Grazie a solidi rapporti personali con i correligionari del Vecchio continente, erano riusciti ad assicurarsi merci poco voluminose e pregiate, come le gemme e le spezie, e a immetterle nel mercato con profitti notevoli, ammassando così cospicui capitali. Sia i tassi elevati praticati dai prestatori di denaro cristiani, sia la disapprovazione ufficiale della Chiesa per il prestito a interesse, avevano contribuito a dar loro un vantaggio competitivo sui concorrenti, e per giunta erano in grado di offrire prestiti anticipati in cambio di redditizi appalti di riscossione di imposte e dazi doganali. I rischi, tuttavia, erano enormi. Sapevano per esperienza che in ogni momento i debiti potevano essere ripudiati, le loro proprietà confiscate, essi stessi o i loro eredi spogliati di tutto o incarcerati dal regnante di turno. Eppure continuavano a offrire i propri servigi, perché per ogni ebreo impiccato c’erano tante storie di successo di banchieri e maestri di zecca che sopravvissero ai pericoli diventando straordinariamente ricchi.
Le esigenze dei principi – eserciti, cittadelle e palazzi – non erano cambiate dall’età gotica a quella barocca. Era però cambiata la loro gerarchia. A metà del Seicento gli Asburgo, in Austria come in Spagna, avevano abbandonato la campagna avviata un secolo prima da Carlo V per sgominare l’eresia protestante e riunire la cristianità in una crociata contro i turchi. Cinquant’anni dopo, nessuno immaginava più una riunificazione confessionale. Tuttavia, la guerra tra cristiani era a malapena terminata che già veniva sostituita da un mercantilismo armato. Tra il 1650 e il 1780 era vitale disporre di un patrimonio garantito dall’erario, e guai a quel reame che non ricorreva, se necessario, alla forza per incrementarlo. In realtà, il patrimonio si poteva calcolare anche in popolazione, terre, schiavi, oro, navi, miniere, manifatture. Alcune dinastie predatrici – gli Svevi, gli Hohenzollern di Prussia, i Borboni – tenevano costantemente d’occhio i rivali, pronte ad approfittare dei loro momenti di debolezza o dei loro passi falsi.
Inizia per queste ragioni una costosissima corsa agli armamenti. Vauban, il grande ingegnere militare di Luigi XIV, aveva rivoluzionato le strategie difensive, ma i bastioni a punta di freccia, con i muri più spessi e impenetrabili che si fossero mai visti, avevano un prezzo esorbitante. E, a loro volta, richiedevano una mostruosa artiglieria d’assedio. Le dimensioni degli eserciti triplicarono. Le navi da guerra e i loro cannoni gareggiavano per superarsi nella gittata delle bordate. Tutto ciò accadeva nel periodo in cui la crisi economica dovuta a decenni di conflitti sanguinosi, la riduzione dei territori a deserti bruciati e città semidiroccate, faceva sì che i soliti a pagare – i contadini assoggettati e i latifondisti – non fossero in grado di fornire il gettito fiscale necessario. Ad aggravare la situazione c’era poi il rifiuto dei ceti nobiliari di cedere al re o al margravio persino una piccola quota dei loro beni per finanziare un convoglio di artiglieria pesante o un reggimento di granatieri. Qui entra in scena Samuel O. Ma non è l’unico. Entra in scena anche la ditta Machado e Pereyra di Amsterdam, che sovvenziona l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo d’Orange nel 1688, e la successiva campagna contro l’esercito cattolico franco-irlandese del suocero, Giacomo II. Entrano in scena anche altri facoltosi personaggi delle comunità ebraiche: Solomon Medina, che sussidia le campagne del duca di Marlborough nella guerra di successione spagnola contro Luigi XIV (1701-1714); la famiglia Gumpertz di Clèves, ebrei di corte e maestri di zecca degli Hohenzollern di Brandeburgo; i due successivi mariti di Esther di Praga, Israel Aaron e Jost Liebmann, che placano la passione per i gioielli più sofisticati di Federico di Prussia; e ancora Berend Lehmann, che si svena per pagare lo sbalorditivo palazzo Zwinger di Augusto il Forte a Dresda. I ministri delle Finanze con l’acqua alla gola degli stati germanici avevano ottimi motivi per preferire gli ebrei agli svizzeri o agli ugonotti. I loro tassi d’interesse non potevano varcare la soglia del sei per cento, e comunque li si poteva obbligare – con le buone o cattive maniere – ad abbassarli ulteriormente. Il rimborso del capitale, peraltro, era rateizzabile ad libitum del debitore. Da ultimo, grazie alle loro relazioni con le famiglie ashkenazite più lontane, dall’Ucraina alla Danimarca, erano in grado di rifornire rapidamente gli eserciti di stoffe olandesi, salnitro boemo e grano polacco.
Fino a quando non cadde in disgrazia, Samuel O era ripetutamente accorso in aiuto dell’imperatore asburgico. Nel 1683, con le truppe ottomane di Kara Mustafa alle porte di Vienna, il suo denaro impedì la catastrofe. Pur essendo stato pubblicamente vilipeso e destituito in favore di un consorzio di banchieri cattolici, intervenne quando i fondi consacrati dal clero cominciarono a mancare. In questo senso, il suo virtuosistico ritratto dell’incisore Johann Andreas Pfeffel (1674-1748) è un caso di autopromozione senza precedenti nell’iconografia ebraica. L’uomo che ha spezzato l’assedio è raffigurato come un incrocio tra un rabbino e un feldmaresciallo, che indica tutto ciò di cui dispone: polvere da sparo e mortai, moschetti, l’elmo solitamente associato alla sovranità e un documento con stampata l’aquila a due teste degli Asburgo.
Nel 1683, con le truppe ottomane alle porte di Vienna, il denaro di Samuel O impedì la catastrofe. Pur essendo stato lui pubblicamente vilipeso
La millanteria era però compensata dai fatti. Samuel O mobilitava flotte di zattere e chiatte fluviali per trasportare soldati, animali da tiro e artiglieria lungo il Danubio fino alle fortezze assediate dell’Ungheria. Recinti galleggianti di bovini, pecore e pollame percorrevano il fiume fino al loro appuntamento con gli spiedi e i tegami dei soldati. Accampamenti e caserme erano riforniti di pane, munizioni e bende. Sciabole, moschetti, cannoni e pistole, polvere da sparo e palle, micce a combustione lenta e rapida, si materializzavano come per magia. La flotta di Oppenheimer solcava senza sosta i mari settentrionali e meridionali fino a quando non trovava ciò che serviva. Anzitutto, fino a quando non trovava la merce più preziosa in assoluto, quella che determinava l’esito di una battaglia: l’avena. Niente avena, niente cavalleria. Niente avena, niente carri per l’artiglieria. Niente avena, non restava che la resa.
Mobilitava flotte di zattere e chiatte per trasportare soldati e artiglieria. La merce più preziosa? L’avena. Niente avena, niente cavalleria
Dopo la morte di Oppenheimer, nel 1703, il suo socio di minoranza Samson Wertheimer (1658-1724) si fece avanti per prenderne il posto. La lettera di nomina lo definiva “industrioso, infaticabile, efficiente, leale e generoso”. Tradotto, si poteva fare affidamento su di lui per ottenere l’anticipo di un milione di fiorini fino a quando l’impero era in guerra. In qualità di banchiere personale della dinastia ungherese degli Esterhazy, Wertheimer si era fatto una reputazione di probità amministrativa e, cosa ancora più importante, di prodigo soccorritore dei potenti. Anche il fatto che fosse stimato come “Grandrabbiner” (rabbino capo) d’Ungheria, Moravia e Boemia, noto per i suoi taglienti sermoni, attestava la sua integrità morale. I suoi interessi erano innumerevoli. Proprietario delle miniere di sale di Siebenbürgen, aveva il monopolio del tabacco nei Balcani. Si poteva contare su Wertheimer per mantenere le ambasciate all’estero, liberare l’imperatrice dai suoi debiti, pagare i fuochi d’artificio dell’incoronazione imperiale di Carlo VI, succeduto a suo fratello Giuseppe nel 1711. A Vienna, Praga, Francoforte, finì per essere considerato un forziere di saggezza e di monete, al punto che Leopoldo gli fece dono del proprio ritratto in segno di riconoscenza.
Wertheimer, il successore di Oppenheimer, continuava a credere in un futuro per gli ebrei nell’impero asburgico nonostante gli abusi
Nonostante le periodiche espulsioni, gli episodi di violenza, gli abusi e gli attacchi di cui erano oggetto, Wertheimer continuava a credere in un futuro per gli ebrei nell’impero asburgico. Era diventato, infatti, l’erede della lunga tradizione dei “resh galuta” (i capi dell’esilio), un protettore degli ebrei in anni molto tempestosi. Tanto che, dopo essere stati cacciati da Eisenstadt nel corso dell’insurrezione ungherese del 1708, li persuase a rientrare in città e a costruire una sinagoga privata mettendo a disposizione la sua casa. Danneggiata da un incendio nel 1795, fu riedificata negli anni Trenta dell’Ottocento in un sobrio stile classico visibile ancora oggi. Nel novembre del 1938, quando i roghi appiccati durante la “notte dei cristalli” (“Kristallnacht”), su istigazione dei tanti austriaci entusiasti dell’Anschluss al Terzo Reich, distrussero la principale sinagoga della città, la sua “shul” (sinagoga in yiddish) si salvò, forse perché era al primo piano della sua abitazione. La sua congregazione non fu altrettanto fortunata. Oggi è un luogo di spettrale devozione: il Museo ebraico austriaco.
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