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Todos Camilleros. Quanti epigoni del padre di Montalbano

Todos Camilleros. Quanti epigoni del padre di Montalbano

Andrea Camilleri, nato a Porto Empedocle, avrebbe compiuto cent’anni il prossimo 6 settembre (foto Olycom)

E quante celebrazioni gastronomiche per il centenario. Piatti “come solo Adelina sa fare”. Cent’anni “d’isolitudine”. La Sicilia e il parallelo con Cervantes, stroncato dai suoi contemporanei come “umorista popolare senza importanza”

Cent’anni d’isolutidine. Non la versione siciliana della Macondo di García Márquez. Ma i cento anni che avrebbe compiuto il prossimo 6 settembre un altro singolare narratore del sud del mondo come Andrea Camilleri, nato nel 1925 a Porto Empedocle, provincia di Agrigento.

Cent’anni celebrati come se non ci fosse un domani. Perché chissà tra cent’anni quale sarà lo spazio nella storia della letteratura di Camilleri e soprattutto del camillerismo da lui generato. Che è fiume in piena. E si dirama in un reticolo di corsi d’acqua secondari e inferiori: ruscelli, rigagnoli, rivoli, pozze, marrane.

Chissà. A chi, come me, ha la Spagna nel cuore, viene in mente lo straordinario destino di Cervantes. Il quale era assai avanti negli anni e aduso a tutti i disincanti quando inventò il Don Chisciotte, il suo personaggio più famoso, autentica pietra miliare della narrativa mondiale. Conobbe infine l’improvviso successo, Cervantes. E il distacco con cui l’accolsero i circoli letterari “togati” della Spagna del tempo. Per loro l’autore del primo romanzo moderno rimase “un umorista popolare senza importanza”.

Si parva licet, c’è un’altra coincidenza con Camilleri. La parabola degli epigoni. Il Quijote, si sa, nacque come parodia alla popolarità dei libros de caballerías tanto in voga nella Spagna del Cinquecento e come satira allo scollamento dalla realtà, via via sempre più roboante, proposto da cavalieri celeberrimi all’epoca come Amadís de Gaula, Florambel de Lucea o anche Palmerín de Oliva. La trama è nota. Il povero Quijote, un hidalgo qualunque a cavallo di un ronzino qualunque, vorrebbe imitare le gesta di cui tanto ha letto. Combatte contro i mulini a vento delle comarche della Mancia, convinto che siano giganti da leggenda. Esce sempre sconfitto dallo scontro con la realtà. Ma in cambio diventa, a sua volta, capostipite di una stirpe di hidalgos. Tutti eroi di cause perse e rivoluzioni fallite. Inclusi il colonnello Aureliano Buendía di Márquez o il cavaliere inesistente di Italo Calvino.

Quest’anno, dunque, festeggiamo Camilleri. Centenario che è gioco di fuoco. “Masculiata” di convegni, seminari, incontri, letture, presentazioni di ricerche e libri, finanche quelli per bambini, teatro, concerti. Tutto addobbato in memoria del patriarca scomparso nel 2019. Scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, regista e pure Grande ufficiale al merito della Repubblica, onorificenza conferitagli nel 2003 “per lo straordinario contributo alla letteratura italiana”.

La manifestazione “Le cucine di Camilleri” a Ragusa Ibla. Caponatina in agrodolce, sarde a beccafico, pasta ’ncasciata e immancabili cannoli

Capita che il red carpet della Repubblica passi anche dalle cucine, ché la gola è peccato capitale ma anche “uno dei piaceri solitari più raffinati che l’omo possa godere”, come insegna il commissario Montalbano. E’ così che in Sicilia, ombelico del mondo camilleriano, si è provveduto a esplorare Le cucine di Camilleri ovvero Camilleri’s Foodies nella versione internazionale della locandina. Lo scorso giugno a Ragusa Ibla, nel cuore del barocco siciliano che è luce e lutto, lo sanno tutti, è andata in scena la manifestazione. Un’occasione per riflettere sull’impatto letterario e socioeconomico dell’universo di Montalbano. Ma soprattutto per immergersi nel trionfo di gola e sensi che Camilleri ha cucito addosso al suo personaggio più popolare. Finì come doveva finire. Ad arancini/e di riso (in Sicilia sono bigender, una vecchia diatriba), caponatina in agrodolce, sarde a beccafico e pasta ‘ncasciata “come solo Adelina sa fare”. Con un bicchiere di vino freddo e gli immancabili cannoli bianchi di ricotta e zucchero, scorze d’arancia e granella di pistacchio a decorare. Degustazioni, va da sé, a cura di Slow Food, che del diritto al piacere e al buon cibo ha fatto apostolato globale.

Chi c’era “di persona, personalmente”, testimonia che sembrava di entrare a piè pari nelle pagine dello scrittore. Dicono che bastava mettersi in fila e comprare il biglietto per poter percepire gli odori, gustare i sapori. Vuoi mettere? Ogni piatto un rito, ogni pasto una liturgia. Il climax sensoriale della cucina alla Montalbano è stato raggiunto, ovviamente, nella serata finale. Con una colonna sonora adeguata. Brani dall’album Manzamà dei Fratelli Mancuso, i polistrumentisti Lorenzo e Onofrio, originari di Sutera, provincia di Caltanissetta, laurea honoris causa in Scienze cognitive nel 2017 all’Università di Messina.

“E chi più ne ha più ne metta”, avrebbe aggiunto Montalbano attingendo al suo repertorio. Non a torto Antonino Belcuore, commissario straordinario della Camera di commercio del Sud Est Sicilia, l’ente che ha promosso l’iniziativa, ha auspicato “a caldo” che Le cucine di Camilleri diventino “un format replicabile”.

Perché il filone culinario di Camilleri è il più imitato. L’Italia intera è piena di investigatori e investigatrici che indagano guardando il piatto. E’ lì che convivono cibo e “ammazzatine”, eros e thanatos. Narrati nel dettaglio dei prodotti tipici. Dagli Iblei, agli Appennini, alle Alpi, dai borghi della Lucania ai lidi della Puglia. Una tavola imbandita come santuario di meditazioni necessarie allo sviluppo delle indagini.

E’ vero che, scendendo “per li rami”, il filone della cucina di Montalbano diventa talvolta un “filoncino”. La scoperta dell’acqua calda nelle cucine dei monsù o nei segreti dei chiostri monastici. Con autori che si definiscono storici della gastronomia, cultori delle tradizioni. Con stampatori finalmente felici di potersi dichiarare editori.

Cent’anni d’isolutidine sono una galassia, una Disneyland camilleriana, una squadra di supporter sempre schierata in campo. Per tenere a bada altrettanti detrattori che hanno sempre considerato Camilleri solo un “fenomeno di mercato”. Un bel da fare per la famiglia che salvaguarda la memoria del capostipite, destreggiandosi tra estimatori della prima ora ed epigoni di ultima generazione. E per la compagnia di giro di editori, critici, scrittori, teatranti e cuntastorie. Nati e spesso cresciuti sotto l’ampio mantello di Andrea Camilleri. Tutti schierati alla “festa grande” che si terrà ad Agrigento il 18 luglio.

Gli eventi si rincorrono senza sosta. In Italia e all’estero. Il sito del Fondo Camilleri, presieduto da Andreina, figlia primogenita di Andrea, dà notizia delle iniziative più importanti. Per dire, gli Istituti italiani di cultura e le ambasciate coinvolte in #Camilleri100 (questo l’hashtag del centenario) comprendono Addis Abeba, Algeri, Amburgo, Atene, Berlino, Bruxelles, Colonia, Cracovia, Friburgo, Lione, Madrid, Miami, New York, Oslo, Pechino, Praga, Rio de Janeiro, Singapore, Sofia e Varsavia. E non abbiamo finito. Ci sono ovunque capi sciolti da riannodare nel nome del patriarca. Come il Festival del cinema italiano a Malaga lo scorso maggio, inaugurato con la proiezione di La scomparsa di Patò da Rocco Mortelliti, regista del film, discepolo e anche genero di Camilleri. Il quale confessa che non ha intenzione di partecipare a tutti, proprio tutti, i memorial camilleriani in programma. Perché qualsiasi paesello, qualsiasi Vigata immaginabile, anche la più marginale, ritiene di dovere onoranze al Maestro.

“Un uomo generoso con chi si rivolgeva a lui. Una fonte di ispirazione per chiunque”, dice Rocco Mortelliti, regista e genero dello scrittore

“Ho un po’ di nausea ad assistere a questo tourbillon”, dice Rocco Mortelliti. Poi corregge il tiro: “Tutti hanno diritto di parlare di Andrea Camilleri, ci mancherebbe. Mio suocero era un uomo generoso con chi si rivolgeva a lui. Una fonte di ispirazione per chiunque. Pure io, però, sono affaccendato. Lavoro al montaggio del mio nuovo film dal titolo: Miopia - le identità nascoste. Il tema? Sarebbe piaciuto ad Andrea: la ricerca della verità in un mondo che preferisce voltarsi dall’altra parte, preferisce l’ipocrisia”.

Cent’anni d’isolutidine. Onore al merito di Andrea Camilleri. Che comunque nella storia della letteratura postunitaria è riuscito a sdoganare la Sicilia. Non più isola simbolo della Terronia italiana, metafora di emarginazione, arretratezza, illegalità. Per decenni i siciliani emigrati al nord hanno portato il peso di una concreta diffidenza che impediva loro perfino di affittare case. Terroni. Termine che viene dalla terra, dalle zolle avare dissodate dai villani. Oggi nell’Italia del politicamente corretto si può anche dire per scherzo. Ma nel dopoguerra si trattava di razzismo allo stato puro. Lo documentò per primo nel 1950 il linguista Bruno Migliorini, inserendo la parola in appendice a una riedizione del Dizionario moderno di Alfredo Panzini.

Ha contribuito a ridare dignità alla Sicilia come “fabbrica di miti”. Più di trenta milioni di copie vendute, ma è ancora privo “della gloria che merita”

A ridare dignità ai siciliani contribuì, non poco, Camilleri. Riscrivendo la Sicilia, riportandola alle origini. A un archetipo affabulatorio. Non più e non solo “l’isola dei vinti” come I Malavoglia di Verga. O dei palazzi prossimi alla rovina dove l’aristocrazia danza il valzer del proprio ineluttabile tramonto, come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o nei Viceré di Federico De Roberto. Non la Sicilia nuda e cruda di Sciascia, autore capace di farne esplodere tutte le contraddizioni.

Piuttosto la Sicilia come “fabbrica di miti”. Un teatro dell’anima che produce a getto continuo storie e leggende, ironia e memoria. Con Camilleri la Trinacria diventa un brand, al pari di Macondo. Ma mentre Macondo è un microcosmo tropicale seppellito nella foresta colombiana “dove la realtà non ha ancora fatto irruzione”, la Sicilia è un microcosmo mediterraneo. Molto più a portata di mano.

Onore al merito di Andrea Camilleri. Il quale, con oltre cento titoli pubblicati, di cui un terzo dedicati al commissario Montalbano, traduzioni in trenta lingue e più di 30 milioni di copie vendute, è riuscito a far prendere in mano un libro a chi non aveva mai neppure supposto di leggere. Magari gli stessi che avevano trascorso più di quattro lustri appoltronati davanti alla tv a guardare la serie infinita Il commissario Montalbano. Gli stessi che vestirono il lutto quando fu trasmessa dalla Rai l’ultima puntata l’8 marzo del 2021, dopo 15 stagioni e 37 episodi.

Ma “il trionfo più grande di Camilleri è l’invenzione della lingua”, dice Salvatore Silvano Nigro, critico e filologo di lungo corso. Per lui, che ha firmato più di 50 risvolti di copertina per altrettanti romanzi di Camilleri editi da Sellerio, il vigatese è ancora da indagare. “Innegabile il successo, ma come autore Camilleri non ha ancora ottenuto la gloria che merita. Non è entrato nella storia della letteratura italiana”.

Fenomenologia del vigatese. Che è codice unico, non siciliano e manco italiano. Un idioma identitario e, al tempo stesso, universale. Ibrido, meticcio. Mescolanza di tradizione orale, cultura popolare e sperimentazione stilistica.

Per questo i pochi critici letterari che presero sul serio Camilleri a partire dagli anni Novanta – quando dimostrò di essere un “fenomeno” da sessantamila copie a titolo, per la fortuna di Sellerio, suo editore di riferimento – capirono tutti e subito che il segreto del successo era la lingua, lo sperimentalismo espressivo condotto come una colonna sonora, “due a battere e due a levare”.

Nel frattempo, gli italiani avevano imparato a soppesare “cabbasisi” e “camurrie”. E anche le “ammazzatine” sembravano meno luttuose. Altro che la “nera scrittura” di Sciascia. La pagina di Camilleri è variopinta, una Sicilia inoffensiva, formato esportazione. La Sicilia più descritta e narrata anche da chi non è in grado di profferire una parola in siciliano. E sfiora il ridicolo.

La scrittrice Giuseppina Torregrossa, intrepida esploratrice di identità femminili e, in quanto tale, considerata tra gli autori siciliani meno camilleriani, scrive in italiano ma ha reso omaggio alla lingua del Maestro. “Caro Maestro”, scrive proprio così nella postfazione al racconto La targa di Camilleri, edito da Rizzoli nel 2015. E racconta di sé, tredicenne che si trasferisce da Palermo a Roma e inizia il ginnasio. A scuola, non appena apre bocca, la cadenza siciliana e le vocali troppo aperte suscitano ilarità tra le compagne. “A casa studiavo – dice – ma in classe ammutolivo. Prendevo lezioni private, ma non servivano contro lo sfottò”. Ecco. Torregrossa ringrazia Camilleri per aver restituito la parlata ai siciliani. E dato che è anche medico, suggerisce a chi deve affrontare l’ospedale di avere con sé anche un libro di Camilleri. Una risata allunga la vita.

Cent’anni d’isolitudine. Camilleri ha tracciato il solco di una nuova “territorialità letteraria” e lo ha fatto mascherando la fatica di scrivere. Il genero Rocco Mortelliti ricorda il suo insegnamento che è anche esperienza di teatro e regia: “lo scrittore deve essere come un acrobata. Al pubblico non interessa cosa c’è dietro i salti mortali, dietro le evoluzioni per aria. Si scende giù e si sorride”. Panta rei. Tutto scorre nella chimera narrativa. Non c’è trucco, non c’è inganno. Così è, se vi pare. Il rovescio della medaglia sono i “Camilleros”, la nuova, affollata, generazione di scrittori e sceneggiatori, cresciuta con l’illusione di potere replicare il successo di Camilleri. E di poterlo fare con facilità. Credendo che gli ingredienti siano alla portata di tutti. Un po’ di dialetto, i temi dell’impegno civile che vanno sempre bene, abiti evergreen per antonomasia, l’ingegno del poliziesco che crea suspense, il fascino del romanzo storico che valorizza personaggi, paesaggi e prodotti.

C’è di tutto. Alcuni “Camilleros”, soprattutto seguaci delle lezioni tenute dal Maestro a Roma, al Centro sperimentale di cinematografia e all’Accademia Silvio D’Amico, hanno delocalizzato il brand. La maggior parte lo ancor di più radicato in una Sicilia sempre più immobile e assolata. Dove la realtà dei fatti viene esorcizzata perché non faccia più irruzione come nelle pagine di Verga, Pirandello, De Roberto, Tomasi di Lampedusa e Sciascia. E’ certo. L’eco dei “Camilleros” risuonerà per molti anni a venire. Cent’anni d’isolitudine.

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