Per una manciata di euro

Da una prospettiva empirica, cioè basata sulla realtà del mondo così come l'uomo vissuta, la vita si riduce a un atto permanente di scelta tra diversi valori in competizione tra loro. Per valori, intendiamo ciò che apprezziamo e ciò che, in diversa misura e in modi diversi, perseguiamo, desideriamo o, al contrario, evitiamo e rifiutiamo. Nel nostro rapporto con il mondo, in qualsiasi suo aspetto – intellettuale, materiale, spirituale – tutto è necessariamente valutato individualmente, e questo processo di valutazione di ciò che è bene o male per noi è il momento fondamentale che sostiene ogni azione umana: perseguiamo ciò che apprezziamo ed evitiamo ciò che svalutiamo. Poi, naturalmente, un'analisi empirica realistica aggiunge una semplice conclusione sulla vita umana: non si può avere tutto. Al contrario, il mondo è, per sua natura, moralmente, politicamente ed economicamente scarso, ed è per questo che la saggezza popolare, proprio perché riflette questi due “fatti della vita”, riassume molto bene le cose spiegando che “non si può sempre avere il sole sull’aia e la pioggia nel campo di rape”.
In politica, quindi, la questione è fin troppo ovvia. Se puntiamo sul massimo valore della sicurezza, ad esempio, la coperta viene tolta dal lato della libertà; se puntiamo sull'uguaglianza per tutti, perdiamo il riconoscimento dei meriti individuali; se diamo troppo valore al progresso, dimentichiamo l'importanza della tradizione; o, anche in questioni pratiche come le virgole di bilancio, dovremmo prestare attenzione all'eterno conflitto di valori in cui tutti vogliono tasse basse allo stesso tempo in cui vogliono servizi pubblici più numerosi e migliori. In breve, e come Isaiah Berlin non si stancava mai di spiegare, la naturale scarsità del mondo implica un'inevitabile necessità di scegliere, e questa scelta rappresenta, da un lato, una condanna, perché pone la responsabilità del processo decisionale su tutto – dal più piccolo pensiero scartato ai più grandi dilemmi morali dell'Umanità – sulle spalle dell'Uomo. D'altra parte, questa stessa scelta rappresenta anche il momento della creazione umana, in quanto è di fronte al dilemma, decidendo la strada A o B, che l'Uomo pensa, parla, agisce, mette in pratica, produce, esprimendo la propria volontà nel mondo. In breve, scegliere è creare. Allo stesso modo, il caotico e ipercomplesso pluralismo di valori, caratterizzato da questo perpetuo conflitto primordiale-scelta, rappresenta il potenziale terreno fertile per la creazione umana: dal caos, attraverso la scelta, l'Uomo inventa il proprio mondo.
Il conflitto resta dunque sempre il vero fondamento della vita umana, in particolare di quella politica e sociale, fondata, fin dall'inizio, sull'eterna lotta tra due valori fondamentali: gli interessi del singolo, che devono essere tutelati contro l'autoritarismo della collettività, e l'interesse pubblico, bene altrettanto necessario, se non altro per assicurare che i diritti, le libertà e le garanzie di tutti gli individui siano tutelati in egual misura.
Insomma, alla fine non c'è scampo: il mondo è necessariamente fatto di valori, cioè di cose che sono importanti per noi, e questi valori si scontrano tra loro – non si può avere tutto – e così la scelta diventa inevitabile, così come la sua intrinseca soggettività, facendo sì che, così come i valori si scontrano tra loro, anche le scelte di milioni di individui, in condizioni e contesti così diversi, ma tutti in competizione con pari dignità per la naturale scarsità della realtà umana, entreranno in conflitto tra loro. Ecco come comprendiamo che il conflitto è ciò che sta alla base della società politica, e non la concordia o l'armonia, sia di idee che di valori. Al contrario, è il conflitto che nasce dai diversi obiettivi e dalle diverse scelte che ciascuno compie a creare una base sociale necessariamente competitiva, caotica, competitiva e conflittuale.
In parole povere, ci sono solo due modi per affrontare socio-politicamente il peso della scelta e il conflitto sociale che essa implica: o la leadership politica decide e impone questa decisione a tutti gli individui, liberandoli dalla responsabilità di decidere sulla maggior parte delle questioni, ma vincolandoli alla propria volontà espressa sotto le mentite spoglie del "bene collettivo"; oppure, come in Occidente, esistono piattaforme più o meno istituzionalizzate per la negoziazione socio-politica in cui i rappresentanti di ciascuna visione, o scelta, negoziano tra loro fino a trovare modalità di intesa che, anche se non soddisfano tutti, riescano a trasformare il conflitto e la necessità di scegliere in programmi di azione (e creazione) collettiva. In Occidente, abbiamo dato il nome di democrazia liberale a questo processo di integrazione del conflitto, qualcosa che, visto da questa prospettiva, è molto più ampio del semplice assetto istituzionale della rappresentanza politica che varia da Paese a Paese.
La ragione del successo del sistema liberal-democratico deriva anche da questa caratteristica conflittuale della società, in quanto la scelta è tanto più efficace quanto più il decisore è vicino ad essa. Poiché chi è più vicino conosce meglio le ipotesi in questione, il contesto specifico della scelta o le conseguenze dirette delle azioni, la democratizzazione e la liberalizzazione della scelta hanno permesso che questa fosse effettuata in modo più diretto, efficiente e pratico. Nelle strutture burocratiche centralizzate, dove la decisione finale risiede stabilmente al vertice del sistema, questa distanza tra la necessità di scegliere e la decisione effettiva porta a distorsioni e perversioni che danneggiano gravemente il sistema, in tutte le sue sfumature. In economia, ad esempio, Ludwig Von Mises spiegò questo fenomeno attraverso la distorsione dei prezzi che i sistemi di economia pianificata implicano. Nel mondo delle idee, Stuart Mill dimostrò come la democratizzazione e la libertà di espressione coincidano anche con il necessario fiorire dell'innovazione e il rafforzamento del pensiero acquisito attraverso la libera concorrenza. Anche nel mondo delle azioni umane, proprio perché alla scelta si accompagna la responsabilità individuale, Antero de Quental — tra l'altro diversi decenni prima di Max Weber — ha sostenuto con successo che le società culturalmente centralizzate cadono necessariamente ai piedi di quelle che, per varie ragioni, sono più dinamiche a livello sociale perché pongono l'accento della decisione e della scelta sull'individuo, e non sull'autorità locale, regionale o ecclesiastica.
È per queste ragioni che il mercato, il famigerato concetto che la sinistra denigra, in realtà non è solo una scelta, sebbene sia anche una scelta che gli intellettuali mancini, perché materialisti, tendono a farci credere si trovi solo al supermercato. Ben più di questo, il mercato, il vero mercato, è quello che racchiude in sé questa intrinseca e ineludibile necessità di scegliere – che questa scelta avvenga a livello di cose, idee o desideri. Pertanto, e anche contrariamente a quanto la sinistra tende a fare con la sua difesa della "libertà", non dovremmo parlare di, o di, una libertà, ma piuttosto "di libertà", perché per ogni dimensione della vita, per ogni mondo di scelte, esiste un mercato necessario e, di conseguenza, una libertà che ne garantisce la maggiore vicinanza alla volontà e alle decisioni delle persone: nel mondo delle cose, è la proprietà privata che assicura il libero scambio di beni e servizi; nel mondo delle idee, è la libertà di espressione che consente loro di circolare, scambiarsi, crescere, mescolarsi, fertilizzarsi, purché sia assicurata la libertà di pensare e di parlare; proprio come nel mondo della volontà e dell'azione umana, è la libertà dalla coercizione, definita dai diritti e dalle garanzie relative alla vita, al corpo e all'autonomia di ogni individuo - la vecchia libertà negativa di Isaiah Berlin - che consente ciò che è naturale e spontaneo, per rubare il termine a Hayek, la prosperità sociale e umana.
Libertà di pensare, di parlare, di agire: questa è la somma totale della garanzia che le scelte siano fatte in modo sussidiario, dal basso verso l'alto, dall'individuo alla società, e non viceversa, come nell'Ancien Régime, dove l'autorità centrale imponeva, insieme alla sovranità, le decisioni dall'alto, dal potere politico, verso il basso, al popolo, che era responsabile del rispetto delle decisioni. Di fatto, qui vediamo come il concetto stesso di sovranità popolare – altro cliché pervertito dalla sinistra – non significhi nulla se non è ombelicalmente connesso alle libertà di pensare, di parlare e di agire. In definitiva, quella sovranità, e queste libertà, dipendono da una vittoria popolare nell'eterno conflitto di valori primordiali che in tutte le società, in tutte le loro diverse dimensioni, oppone la spinta accentratrice della collettività all'ordine spontaneo degli individui e alle loro naturali connessioni e volontà di valori, emozioni e spirito. In breve, è questo mondo complesso e spontaneo, costruito dal basso, dal popolo al sovrano, ma dalla libera associazione degli individui, dei popoli, nelle loro volontà, culture e tradizioni, che il potere politico dovrebbe solo riconoscere, al massimo proteggere, che costituisce l'essenza della soluzione democratica e liberale che ha portato abbondanza, prosperità e benessere all'Occidente.
In verità, da questa prospettiva, non poteva essere altrimenti: né i sistemi centralizzati di gestione dei conflitti possono essere sistemi veramente liberi, né possono essere prosperi come quelli che lo sono. In effetti, la chiave del successo dell'Occidente risiede nell'evidenza empirica che convalida l'argomentazione sopra esposta. Vale a dire, ci sono ragioni che spiegano il successo dell'ordine liberale occidentale, così come queste stesse ragioni spiegano il fallimento delle alternative. L'Occidente non ha avuto il successo che ha avuto semplicemente perché era l'Occidente; al contrario, ha avuto successo, e da questo tutti noi ne beneficiamo ancora, perché ha seguito le politiche, le strategie e le idee giuste, allineate al mondo reale, che, per le ragioni sopra esposte, ne hanno garantito il successo. Un'altra piccola conclusione ne consegue naturalmente: se l'Occidente smette di seguire questi importanti principi, questo modo di affrontare il mondo, i suoi valori, allora non saranno solo le libertà a cambiare radicalmente nelle nostre società: inevitabilmente, anche queste non avranno più le condizioni per avere successo e prosperità.
Stranamente, forse per usura, senza dubbio per ignoranza, se non addirittura per inganno, l'Europa sembra aver investito seriamente in questa seconda via. Negli ultimi anni, l'Unione Europea ha gradualmente sostituito la sussidiarietà con la centralizzazione, e sebbene all'inizio ciò riguardasse solo la prospettiva economica – il mercato delle cose – la verità è che questo cambiamento si è esteso da tempo a tutti gli aspetti della vita. Oggi, da un socialismo imponente ancorato a piani quinquennali per lo sviluppo economico centralizzato e attuato attraverso sussidi e regolamentazione di fini e obiettivi, ai progetti di moneta digitale (CBDC) che, col tempo, se avranno successo, consentiranno alla BCE di acquisire il potere di ricercare ogni singola transazione, ovvero senza definire a priori cosa e in quali modi ogni unità di moneta digitale possa essere spesa o trasferita, imponendo un modello di grande centralizzazione, pianificazione e autoritarismo economico, ancor più giustificato ora sotto la copertura moralistica e pseudo-salvifica derivante dalla follia antiscientifica ossessionata dalla "transizione energetica".
Poi, a livello sociale, un bizzarro suicidio basato sull'importazione massiccia di persone che fondamentalmente affrontano libertà e conflitti in modo molto diverso dagli occidentali, un fenomeno imposto anch'esso dall'alto, per decreto, contro le persone, motivato da una cecità ideologica "multiculturalista", piena di arroganza, che immagina che chiunque arrivi voglia essere come noi. Poi, ancora dall'alto, attraverso una chiara imposizione di nuovi valori sociali – dal defunto wokismo alle bandiere arcobaleno – che, anche attraverso la regolamentazione, nonché il puro ricatto con gli Stati membri assetati di bazooka, fondi strutturali e sostegno alla coesione, si sono diffusi da Bruxelles all'intero continente. Infine, un'ossessione maniacale per l'armonia politica, tipica di un discorso unitario, già di per sé autoritario, che, in nome della "vera" libertà o della "scienza", perverte le libertà stesse, come è palesemente esemplificato dal perverso Digital Services Act e dal suo successore, lo "Scudo Democratico", dove, in nome di una presunta lotta alla disinformazione, l'UE si propone ora di trovare il modo di regolamentare, controllare – censurare – la parola su internet. In breve, l'UE di oggi perverte, inverte e distrugge tutto ciò che, in passato, "ha reso grande l'Occidente".
La tentazione del controllo tecnocratico centralista sotto la maschera di presunti valori come "efficienza" o "sicurezza", così come gli slogan in nome della libertà, sebbene significhino l'esatto opposto, poiché implicano sempre il trasferimento del potere decisionale dal popolo ai poteri politici, ci appare ora dall'esterno, con parole dolci e il trucco più antico del mondo: mentre sventolano una manciata di banconote promettendo la salvezza economica del Paese, con l'altra mano, di nascosto, ci tolgono le libertà, la sovranità non solo popolare, ma anche nazionale. Come ho cercato di dimostrare, se il processo in corso non verrà invertito, le conseguenze saranno, naturalmente, catastrofiche, non solo per i portoghesi, ma per tutti gli europei. E con queste non mi riferisco solo alla perdita dell'indipendenza e della sovranità nazionale, qualcosa che, sospetto, la maggior parte dei portoghesi scambierebbe volentieri con un governo straniero, finché nel calcio sarà sempre lo stesso piccolo guardalinee a sollevare i cuori e a versare lacrime per vittorie e sconfitte. No, le conseguenze peggiori sono quelle che derivano dalla sostituzione del sistema occidentale di sovranità popolare, libertà individuali e sussidiarietà con la sovranità tecnocratica delle élite, il trionfo del “bene” collettivo e la progressiva centralizzazione dei mezzi di produzione e di decisione: bancarotta, violenza e totalitarismo, quindi.
Qui in città, tra i sussidi europei che controllano le narrazioni, promettono paradisi futuri e stabilizzano sistemi finanziari affogati nel debito, e il patetico provincialismo portoghese che immagina che tutto ciò che viene dall'estero sia buono e migliore di ciò che viene fatto qui – nonostante siamo i migliori al mondo in questo e quello –, si è generato un silenzio assordante nella società civile portoghese, incapace di discutere la gravità della situazione. Per le stesse ragioni, i nostri politici, incluso praticamente l'intero parlamento e il governo, così come l'intero spazio editoriale e mediatico, guardano a bocca chiusa, con le tasche piene e le loro carriere pubbliche di successo – un crimine contro la nazione che sembra rimanere impunito. Alla fine, per ora, la situazione sembra essere più o meno questa: per una manciata di euro, stanchi e sazi, alienati dalla realtà del mondo, sprechiamo con calma e silenzio tutto ciò che abbiamo ricevuto dai nostri "illustri nonni". Non andrà bene.
observador